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Compleanni

La parola è chiara, completamento di un anno, l’etimologia non sarà corretta, stasera me ne frego, ma il senso è quello, un altro anno.

Di solito il compleanno è un lieto evento, da festeggiare, e invece quella di oggi è la ricorrenza della morte di quella che io ero. Infatti non si è festeggiato, nessuna bottiglia da stappare, solo il solito tran-tran di casa, lavoro, piagnistei malcelati etc.

Dopo 2 anni il bottoncino dell’iniettore lo premo senza indugi, o quasi, l’ago è familiare e lo stesso dicasi per il bruciore di quel maledetto medicinale che sembra infuocare la mia pelle. Dopo un po’ passa, e lascia solo un pomfo piccolino, che nei giorni successivi cresce, e fa male, e poi scompare. Al mattino dopo l’iniezione sono frastornata, la testa mi fa male e la bocca è secca, sarò l’antipiretico che mi fa venire mal di stomaco, ma, sostanzialmente, faccio la mia vita normale (sì, ho scritto proprio normale, wow), e spesso neanche ci penso, o non ne ho il tempo. E però la rabbia, quella con cui vorrei scagliarlo via quel malefico aggeggio, c’è, sempre nuova, sempre forte, sempre con me, e il perché proprio a me, che nessuno dovrebbe chiederselo, non mi abbandona mai, e lo so che faccio male, ma me lo chiedo, ogni santo giorno, ogni dannato momento, a ogni fottuta difficoltà, ad ogni segno di stanchezza, o tremore della mano, o offuscamento dell’occhio. Io non sono santa, e non pretendo di esserlo, né di sembrarlo, e perciò non accetto col sorriso sulle labbra le difficoltà, no, mi incazzo, vorrei mandarle indietro, rispedirle al mittente, se ci fosse un mittente con cui arrabbiarmi mi farei valere, o sì, ché ne sono ampiamente capace.

Sono incazzata, e basta, e non la voglio questa malattia di merda, non la voglio e basta. Non voglio sorrisi, non voglio carezze, non voglio comprensione, non voglio niente di niente, voglio la prospettiva, voglio sentirmi bene, una volta, almeno un’altra volta, piena di energia, piena di coraggio, piena di entusiasmo, che io, così, non me lo ricordo come ci si sente.

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Verba volant

Mi fa sempre sorridere la nonchalance con cui tutte le letterature liquidano la prima produzione poetica di Pirandello.

Mi fa sempre sentire viva prendere un libro di letteratura, affiancarlo ad un foglio bianco da riempire con una penna nera.  

I miei non sono riassunti, ma modi di fissare sulla carta quello che leggo, che imparo, ogni volta di nuovo.

La mia cervicale non è molto d’accordo sul modo in cui tengo la penna, in cui scrivo con la testa curvata verso destra, e seduta sul bordo della sedia, lo so, non va bene. Ma io, quando lo faccio mi sento così bene… se poi c’è anche una tazza di caffè fumante accanto a me… 

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Poiché ad esse…

Poiché ad essere donna non te lo insegna nessuno, se nasci e cresci in un paesino di provincia dove non ci sono neppure le vetrine o le signore da sbirciare per le strade, ti adatti coi mezzi che hai a crecare di capirci qualcosa.

Molto, troppo, lo prendi da tua madre, e se sei uno spirito ipercritico, come la sottoscritta, lo fai con enorme sofferenza, che non ti adatti poi a tutto quello che il modello ti propone, e anzi cerchi di essere l’esatto contrario con ogni fibra del tuo essere, e, anche quando di fatto sei l’esatto contrario, ti continui a sentire una copia venuta un po’ meglio o un po’ peggio di un modello che non desidereresti mai, e che ti senti però  a vita costretta a ripetere, seppur in maniera estremamente parziale.

Poiché quel modello in realtà, anche se oggettivamente non ti piace, non ha fatto nulla di male per essere odiato, né per essere emulato, anzi forse quello non è neppure un modello né vorrebbe esserlo, eppure, caparbiamente, per quell’intrinseca abilità a farti del male continui a pretendere di non poter prescindere da esso, qualcosa qua e là lo prendi.

Ed è così che arrivo al dunque, quel modello leggeva, legge, ha sempre letto bidonate di riviste femminili, della peggior specie, quelle che dopo averle lette ti rendi conto che hai buttato una moneta e avresti fatto meglio ad usarla per pagarti un caffè, salvo poi considerare che in quel paese di provincia non è che le signore vanno a prendere il caffè al bar, ma se lo preparano a casa o a limite  a casa della vicina, della zia, dell’amica, per cui ogni tanto una moneta spesa nella salumeria che vende anche le riviste ti fa sentire un po’ chic, un po’ donna, appaga quel minimo di frivolezza che riesci a concederti e ti avvicina un’infinitesima parte a quel mondo che vedi su quelle copertine.

Sarà per tutto questo che, anche vivendo in città, un tempo avevo l’abitudine di comprare riviste femminili ogni tanto, senza continuità, scegliendo spesso anche in base al gadget in regalo. 

Fino a che la rete, con la frequentazione di blog, forum et cetera non è venuta in mio soccorso liberandomi dal giogo dell’obbligo a gettar via denari in edicola, che lo so bene non è una questione economica, ma piuttosto un compromesso con la mia intelligenza e la mia attitudine alla lettura vera.

Eppure, anche se adesso tutto di me trasuda un grido di emancipazione, sento che quell’odore di provincia ogni tanto sale a sfiorarmi il naso, e a farmi sentire come quando quelle donne che vedevo nelle riviste di cui sopra mi sembravano lontane come la Luna!

 

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febbraio 18, 2012 · 5:23 PM

Io mi cimento a…

Io mi cimento a scrivere un post qui, anche se non sono ancora abituata, non so se andrò avanti, non so nemmeno se riuscirò a pubblicarlo.

La dimensione del cambiamento non mi è mai piaciuta granché, eppure pare che debba farci i conti, che la mia vita ultimamente non mi consente di scegliere, e quando non c’è scelta a volte è anche tutto molto più semplice. 

Qualche pezzetto di cuore lo lasci qui, qualche abitudine la perdi volentieri, qualcun altra un po’ meno, e lo sguardo lo getti per l’ultima volta lì. Ma poi, pancia in dentro e petto in fuori, ti rimetti a camminare,  ferma non si può, proprio no! Se una lacrima punge l’occhio e se il respiro è un po’ più corto del normale cerchi di non farci caso, e ti riscopri più dura, come non credevi, come la pelle del viso che non è più la stessa di dieci anni fa, e quella ciocca di capelli bianchi che ancora per poco riuscirai a camuffare. 

Quando aprii questo blog ero una ragazzina, avevo tanti dubbi, e non conoscevo ancora tante cose brutte, non avevo consapevolezza di me e una serie sconfinata di piccole e grandi paure.

Oggi sono una donna, ho ancora tanti dubbi, ma conosco tante cose, sempre meno di quelle che mi servirebbe sapere, ma se un giorno sono stata capace di guardare in faccia alla malattia e alla vita, e se un giorno sono stata capace di accettare una cura che mi annienta, allora sarò capace, domani, di alzarmi di nuovo dal letto, un giro di rimmel, i capelli un po’ più su, e una sciarpa a tenermi calda.

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febbraio 12, 2012 · 6:10 PM

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Perché la sclerosi multipla mi fa molto più paura di un buco nella pelle, ecco dove trovo il coraggio di cui tanto mi glorio in questi giorni e di cui tutti si stupiscono, decantando la mia incredibile forza. Probabilmente è solo uno stupido calcolo matematico, paura più grande meno paura più piccola, la differenza fra i due elementi della sottrazione è il coraggio di schiacciare il tasto dell'autoiniettore sulla mia pelle.

Hai voglia a dire che poi ti abitui, io non credo, perché pensare a quell'ago che ti entra nella carne, a quella roba che viene schizzata dentro di te e che, tempo un paio d'ore, ti mette ko tanto da farti perdere la forza anche di avere paura, pensare che mai potraistare meglio di così, a limite uguale, ma sicuramente peggio, insomma pensare a tutte queste cose ti fa venire davvero la voglia di aprire il balcone e buttarti giù. E se non lo fai è solo perché innanzitutto c'è una paura ancora più grande di quelle di sopra, quella della morte ovviamente, e poi perché speri, in cosa non lo sai, ma non potrai mai accettare che davvero sia così, sei troppo umana per farlo, per rassegnarti, per non credere che sia solo un brutto sogno e che dovrà finire.

E poi ti restano due mani che sanno farti sentire bella, nonostante tutto, che sanno farti sentire l'amore, il desiderio, la passione, la dolcezza, la sincerità. Due braccia che ti stringono così forte da farti dimenticare anche la paura di cadere, due occhi in cui puoi rispecchiarti e che possono guardare dove tu non hai il coraggio di farlo, perché sai che non ti mentono e non lo farebbero mai.

Un cuore che senti battere in un petto che, ancora dopo tanti anni, ogni volta che si denuda ti fa sentire un guizzo di desiderio, una testa che pensa, e tu, anche fra mille persone, pensi che quel parere sia sempre il più importante. Una bocca, due gambe, due braccia, un naso, una persona che soffre, gioisce, capisce, ascolta, parla, fa tutto quello che dà un senso a tutto il resto. E tu vorresti solo regalargli una vita normale, mentre, fra i botti dei fuochi esplosi per capodanno, ti infili un pigiama e ti addormenti e intanto il resto del mondo fa festa. 

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Quando soffri i luoghi comuni servono.

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Ho paura.

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è difficile spiegare,
è impossibile capire
se non hai capito già

Guccini mi perdonerà la variazione, ma rende meglio così.

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