Archivi del mese: marzo 2011

In quel corridio lì, a quell'ora lì, ci si va tutti per la stessa malattia, non c'è dubbio.
E forse finirò per farci l'abitudine, in fondo mi sento già un po' di casa, riconosco visi, nomi, persino voci e poi lui, anzi, principalmente lui: l'odore.
E' quando l'ho sentito che ho capito che avrei pianto, che la presenza di spirito non mi sarebbe bastata, che sarebbe accaduto per forza, sicuro! 
E così, quando lui si è allontanato per sbrigare le beghe burocratiche del caso, le lacrime sono scese a fiotti, nascoste dagli occhialoni neri, ma intuibili anche al più distratto dei passanti, fortuna che lì, in quel corridoio, non ci si passa, è senza uscita, ci si arriva, si segna il proprio nome su un foglio e si aspetta, un'ora, due ore, pochi minuti, non si sa.
Per la prima volta vedevo intorno a me gente, gente che ha la mia stessa malattia, quella lì e non un'altra o nessuna, no, proprio lei.
Vedevo qualcuno che si reggeva alla parete, qualcuno che si reggeva alle stampelle, qualcuno che si avviliva, e qualcuno che, come me, chi l'avrebbe mai detto!
Tutti lì con la stessa storia, me ne sono accorto così, è andata colà, bisogna imparare a conviverci, bisogna essere forti, non lasciarsi andare.
E dentro di te pensi che tu sei giovane e forte e anche più carina, e passeggi per quel corridoio quasi a sfegio di chi a passeggiare non ce la fa, o che passeggia lo stesso anche se ha la gamba destra rivolta in dentro.
Ma tu no, tu poi uscirai da lì e tornerai alla vita normale, non riesci a crederci fino in fondo, le tue gambe sono dritte e pensi che sulle cosce devi spalmare un po' di crema idratante, e i tuoi occhi sono sani, e il trucco non è sceso poi troppo nonostante le lacrime, e quel tipo con la gamba storta si mangia una caramella e ti sorride e tu decidi di andarti a comprare un po' di cioccolata nell'attesa, e le ragazze del volontariato le manderesti a cagare allegramente con quella loro aria da brave fanciulle che ti vogliono dare i volantini per informarti,  e sicuramente gli fai anche pena, che è facile sentirsi buoni quando non hai nulla dentro di te che ti fa paura, e allora aiutare gli altri meno fortunati ti fa sentire migliore, ti fa sentire un po' meno in colpa per quello che hai, e soprattutto per quello che non hai.
E poi il medico che ti chiede come stai e quasi ti fa paura rispondere che stai bene, ma poi in fondo pensi che sì, stai bene, ora, in questo momento stai bene ed esci da quella stanza camminando lungo quel corridoio con una prospettiva di vita normale anche se a tempo determinato, che, se tutto va bene, ti sentirai di nuovo così fra qualche mese e intanto ci puoi provare a stare bene, a goderti i giorni, il tuo uomo, gli amici, le cose, la vita.

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Che fra un caffé (preferibilmente amaro) e una fetta di briosche con la nutella (questa è pubblicità occulta, ma ne avrà mai bisogno quella cosa dolciastra e calorica?) io scelga il caffè è cosa risaputa. Eppure ancora riesce a stupire la gente. Gente di poco conto, molto più insignificante e decisamente meno interessante della mia parte intollerante.

Che io decida di truccarmi, mettermi un paio di orecchini e una maglietta nuova solo per andare a lavoro stupisce ancora le persone che di solito, in quel posto, mi vedono arrivare col muso sotto i piedi e la prima cosa che trovo nell'armadio.

E' che non riesco a portare la mia essenza, la mia me, ovunque io vada, inevitabilmente la adatto alle situazioni, come se io fossi in un certo modo solo dove mi interessa esserlo, e per il resto lasci andare la parte peggiore di me, o meglio una me che in fondo non sono. Un camaleonte che non si adatta alle situazioni: le interpreta come sul palco di un teatro.

Sto facendo astrazioni, come mi capita troppo spesso, specie ultimamente.
Addirittura la mia psicoterapeuta mi rimprovera di questo: siamo al colmo!!!

Vorrei trovare interesse nel parlare del tempo, dei posti, delle persone, delle cose.
E invece parlo di qualcosa che non si tocca, e che si interpreta, e che cambia, e che non si coglie veramente mai.
Scindo nettamente il mio io materiale e il mio io spirituale, non riesco a farli andare d'accordo e assecondo l'uno umiliando l'altro troppo spesso e variando le parti altrettanto spesso.
E ci sono periodi in ci sopravvivo mentalmente e mi appaga preparare una teglia di pasta al forno mentre altri in cui mi pasco di quel cibo che solum è mio et io nacqui per lui.
Che ingrasso  dimagrisco ventichili e mi vedo sempre uguale.
E mi rendo conto che le foto che mi ritraggono fra i 20 e i 30 anni sono così poche che se fossi morta in quel periodo avrebbero fatto meglio a ricordarmi con la foto del giorno del diploma, avevo una gonna che conservo ancora nell'armadio, e ci sono rientrata di recente dentro, con grande e stupida soddisfazione di quella vocina che, quando mangio le patatine, mi ricorda quante calorie ci siano in quel sacchetto.

La vita, le cose, le persone, e persino la mia piscoterapeuta, mi dicono che sono cambiata, e io mi sento sempre uguale a me stessa, sempre una sconosciuta persino a me stessa.

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Stasera faccio brutti pensieri e non va bene.
La malattia mia ha aperto una finestra importante su una parte di me che non avevo mai considerato troppo importante, o meglio che non avevo mai rispettato molto:  il mio corpo.
Da quando so di essere malata so di avere un corpo che è tremendamente imperfetto, imperfetto nella misura in cui innanzitutto è soggetto alla consunzione, per natura, di default,  insomma non scampiamo anche se oggi siamo giovaniebbelli, e poi questo corpo riusciamo a guidarlo solo parzialmente, anzi, molto più di quanto crediamo,  è lui che determina le nostre azioni, volontà, desideri, scelte.

Io me lo ricordo quando da ragazzina a scuola l'insegnante di biologia parlava di sclerosi a placche. Quella parola mi faceva così tanta paura, e studiandola pensavo a quanto tremendo dovesse essere averla, e mi sembrava così improbabile e lontana da catalogarla fra tutte le cose che nel libro c'erano e che non facevano parte della mia vita.
Se credessi al destino, ai segni premonitori,  a tutta quella roba lì mi sembrerebbe un ritorno a qualcosa che già un tempo mi aveva toccato.
E così penso a quando una mia compagna di liceo disse che avrebbe tanto voluto studiare medicina e specializzarsi in neurologia, e io pensavo che il neurologo era un medico che non avrei mai voluto frequentare. E viaggiavamo in treno, io verso la mia poesia, la mia arte, la mia letteratura, e lei veros la concretezza di qualcosa che ancora non mi toccava se non con un brivido di paura proprio lì, dietro la nuca a scendere lungo la mia schiena.

E ora apro la home page di Wikipedia e leggo le prime tre righe e richiudo tutto perché ho paura di sapere.
Una paura nuova e mai, mai provata prima, ché sapere è stata sempre l'arma e mai il timore.
E poi vado nel reparto di neurologia e mi chiedo cosa ci faccio io lì, e poi penso di non riuscire a muovere più le mani e non poter scrivere e non poter fare nulla.
E guardo questo corpo e mi spaventa la sua fisicità, il suo essere così parte di me e altro da me. Queste mani sono io che le muovo eppure il gioco delle dita sui tasti sebra così autonomo e indipendente da me.

Sto vivendo troppo male questa cosa, perché non sto vivendo se non nell'attesa di stare peggio, che è l'unica cosa che rieso ad aspettarmi dal futuro e non va bene, il futuro non esiste ancora, il passato non esiste più, esiste solo il presente, e io continuo a negarlo, e in questo modo io non esiste, io sono nulla.

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Mi guardo le mani, e le unghie sono belle, curate, rotonde ma non troppo, non appuntite.
E sono bianche, bianchissime, la pelle è quasi trasparente e si vedono le vene.
E vorrei stendere lo smalto, ma in ospedale è meglio di no, e allora penso a domani pomeriggio, mi siederò qui, con una tazza di caffè bollente, e metterò quello color ciliegia, oppure il rouge noir.
Domani, deciderò domani.

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Il prossimo che mi dice "l'importante è la salute", ammiccando col fare di chi la sa lunga, si becca una capata in bocca!

Al massimo me la si può dire così:

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