Archivi del mese: settembre 2009

Non so se è un ‘abitudine solo partenopea oppure succede ovunque così: quando vengono le donne a lavare le scale del palazzo portano con sè i secchi e bussano alle porte degli inquilini per farseli riempire d’acqua.

Non so se l’ho già detto, ma nella nostra nuova magione abbiamo una vicina di pianerottolo che ha più di 90 anni ed è un personaggio con la P maiuscola, un giorno ne parlerò.

La vicina novantenne (più che novantenne) è rimasta molto colpita dalla mia rivelazione circa il fatto che sia io che lui siamo laureati e che alle volte occupiamo le nostre ore leggendo o studiando, da quel momento in poi io sono stata ribattezzata signora e lui ‘o prufssor’ .

Quindi, fatte queste dovute premesse, ecco che lunedì  arriva la coppia madre+figlia  a lavare le scale, la signora bussa alla porta, io apro e trovo il secchio blu, lo riempio d’acqua fino all’orlo e lo ripongo sul pianerottolo, indi torno alle mie faccenducole.

Quando le donne, lavando le scale, scendono al mio piano sento la vicina che le apostrofa chiedendo loro chi avesse riempito quel secchio, la donna risponde "la signora qui" indicando verosimilmente la mia porta, ed ecco che la vecchina risponde:
"Lì ci abitano due INTELLETTUALI, non li dovete disturbare perché a volte stanno studiando, quindi se bussate date fastidio, la prossima volta bussate da me, io il mese scorso ho pagato 6 euro di acqua, ve lo riempio io il secchio".

I due intellettuali infatti, trovando giustissima l’osservazione della vecchina, visto e considerato che erano impegnati in attività di enorme spessore culturale, ovvero lui leggeva il blog di Luttazzi e lei giocava con un giochino idiota su feisbuc, e a testa bassa, sguardo imbarazzato, hanno continuato ad alimentare il loro magno intelletto magno cum scuorno.

Ed ecco che stamani sono tornate le donne a lavare le scale, e non hanno bussato al portone della sapienza che racchiudeva al suo interno, alle 11 del mattino, un uomo addormentato stravaccato fra mille cuscini, un cane che ronfava sulle pantofole del su citato professore e una signora che mangiava, davanti al pc aperto sulla pagina di Splinder, una rotella di liquirizia!

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La cosa che mi fa sentire viva,  nonostante l’abbrutimento di un lavoro alienante  e non mio, è che continuo sempre a sentirmi perfettamente a mio agio con una penna in mano e le dita sporche d’inchiostro, mentre  la carta scarabocchiata emana il suo odore inconfondibile.

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Che poi, per arrivare all’ambulatorio del mio medico c’è da salire una tripla rampa di scale lunghissima.
Saranno millemila gradini.
Ogni volta  poter finalmente sprofondare in una di quelle sedioline rosse di plastica pare l’obiettivo della tua vita.

Dicevo a lui che, secondo me, si tratta di una sorta di preselezione: chi riesce a salire fin lassù può essere verosimilmente curato, altrimenti meglio fare testamento!

Quando poi sei lì che aspetti il tuo turno le persone entrano man mano ed hanno l’aria vittoriosa, di chi ancora una volta ce l’ha fatta inaspettatamente, ed hanno tutti il mega fiatone e il cuore che batte a mille.

E sì che sono sempre una marea di vecchine che vanno lì a fare due chiacchiere, a misurare la pressione, a  far prescrivere la visita per il nipotino, e alle volte ti dicono signurì, iat primm vuj ca m’aggia misurà ‘ pression’ … e ropp’ ‘e scal s’adda calmà nu poc’ ‘o cor’.

Perché l’orario previsto è dalle 8.30 alle 11.00, tutti i giorni, ma lui lo trovi ad attenderti col sorriso fino ad oltre la mezza, e poi comincia il suo giro nel quartiere, e ancora a sera è lì che cammina con la sua valigetta e non manca di far visita a nessuno.

Poi ti racconta di quante volte anche lui ha pensato di non farcela, e ha capito che la sua scelta è stata presa quel giorno che, dopo la laurea magna cum laude e la specializzazione attaccata alla parete, ha dovuto fare un patto con se stesso e chiedersi se era pronto a fare il medico o voleva fare ancora il paziente, e quindi decise di curarli gli ammalati.

E poi lui non trasgredisce mai alcuna regola, e non vuole regalie e non vuole che gli si paghi nulla mai, però quando mi sono laureata mi ha ricordato tante volte che voleva il velo coi confetti, e io gliel’ho portato.

E ogni volta mi chiede quando ci sposiamo e quando avremo un figlio, poi io gli parlo delle difficoltà del lavoro e lui mi dice che ho ragione.

E poi mi racconta di quando mi ha visto attraversare la strada e ha avuto l’impulso di schiacciare  forte il piede sull’acceleratore e io gli rispondo: dottò, pensate che poi se non morivo erano guai per voi, e lui ride.

E poi lui è alto unmetroesessanta e secondo me peserà cinquantachili, ed ha sempre la camicia sotto al maglioncino e la stufetta alogena accesa accanto alla sua poltrona spellacchiata.

Quando può mi regala i campioncini di Resvis perché dice che il mio sistema immunitario è uno stronzo.

E poi nel suo studio ci sono anche le immagini sacre, ché lui è un medico molto credente, e ci crede per davvero, ma lo sa che io non ci credo e fa finta di nulla ed evita sempre di invocare il signore in mia presenza.

L’unico vezzo è un profumo buonissimo che un tempo avevo anch’io in versione femminile, secondo me se lo spruzza due volte la mattina prima di scendere per aprire l’ambulatorio.

Ha tanta paura dei cani, e quando vede me o lui girare col nostro mezzo cane sempre tenuto al guinzaglio ci chiede di tenere stretta la belva lontano da lui.

E questo è tutto quello che mi viene in mente sul mio medico, che volevo un po’ parlare di lui, vorrei dire anche il nome perché gli sta a pennello, ma devo evitare purtroppo, e spero che il suo pensionamento sia ancora tanto lontano!

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Ci sono due new entry nella mia vita…

1-la cocacolaligth
(che io finora non le bevevo mica mai queste porcate, tantopiù che sono prodotte da multinazionali a cui faccio un’inutile e solitaria guerra da anni, però la cocacolalight crea dipendenza secondo me, tanto che dopo averne acquistata una bottiglietta casualmente, e averla bevuta, ho chiesto la mio lui di prenderne altre che ora sono parcheggiate in frigo. Cazzo!)

2- mutande colorate
(che sono anni che c’ho gli slip neri in microfibra e che sono comodissimamente comodi e si adattano bene ai miei allaramenti-restringimenti, e poi, qualche giorno fa, mentre mostravo la mia coscia sinistra al medico di base -perché ho una reazione allergica in quella zona- nel riflesso del balcone dell’ambulatorio mi sono vista lì, coi calzoni tirati giù e il culo sporgente in su e mi sono trovata persino un po’ sexy.
Sarà stato il gioco di specchi, per fortuna il mio medico ha millemila anni e oramai, tanti i miei assilli, non ci fa più neanche caso alle mie nudità – le conosce quasi-tutte.
Ma dicevo, ho comprato uno stock di 7 mutande coloratissime per la modica cifra di 4.99 euri, eh sì, a Napoli succede,  e mi diverto al mattino a scegliere quella che più si adatta al mio umore!)


Ma sostanzialmente io non ho mica capito bene questa cosa della nuova versione di splinder.
Io continuo ad usare quella vecchia, più rozza ed elementare mi pare.

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Sono l’indiscussa regina del doppio senso involontario.
Assolutamente.

Voglio darne un assaggio:

(mentre arostisco degli spiedini di pesce)
Basta così, è pesce, diventa duro.

(mentre mangio un cannolo-gelato)
guarda, ho fatto uscire la panna dal cannolo con la lingua!

(mentre attascchiamo un poster)
tu riesci ad infilarlo il dito dietro?
  Altrimenti lo infilo io!

And more over…

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Dialoghi surreali

I protagonisti sono sempre gli stessi: un lui che cammina, spalle larghe e cosce sode ,  accanto ad  una lei infagottata in una t-shirt che le arriva sotto il culo, una borsa di  pezza che le arriva sotto il ginocchio e un paio di occhialini da intellettualoide che le scorrono sul naso.

I due stavolta girano per le strade del popolare, ma soprattutto popoloso, quartiere partenopeo di loro residenza.

Come tutti sanno, e soprattutto i muri sanno in questo caso, Napoli è tappezzata da anni di foto di Lavezzi, per ogni dove il calciatore (protagonista del brano www.youtube.com/watch ) ha una grande visibilità, persino sulla busta delle patatine, e lei, la protagonista, vede di sfuggita un manifesto che ritrae il su citato calciatore, lo riconosce e questo le pare un miracolo, tanto che dice a lui:

era Lavezzi quello lì, vero, vero, vero?
Dai torniamo indietro a controllare se è proprio lui, se anch’io finalmente ho imparato a riconoscere un calciatore!

E lui, trascinandola per un polso ché si trovano in un incrocio dove motorini e automobili sfrecciano in 82 sensi di marcia contemporaneamente, le fa:

sì. Era Lavezzi,  ho capito quale manifesto hai visto.

Lei è ancora più contenta,  e azzarda un rilancio:

lo sai che so anche il nome, si chiama Immanuel!

anzi no…

ehm…

Ah, sì Ezequiel, vero, vero, vero?

e lui:- Ezequiel.

e lei:- ma allora, a parte Kant, Immanuel qual è?

e lui (che ha esaurito le sue 10 parole mensili) :- solo Kant.

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Vorrei è smettere di desiderare di essere amata,

accettata,

apprezzata,

accolta.

Questo desiderio è un bisogno, ed è nato con me, ed è cresciuto con me.

Smettere di desiderarlo e nutrirmi dell’amore  che c’è.

Smettere di desiderarne di più.

Smettere di desiderare quello che non c’è stato
e che non c’è.

Questa tensione non fa che logorarmi,
e non me lo darà mai.

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E ad un certo punto quella maschera la indossi per davvero,
reciti la tua parte senza neanche più accorgertene.

E tutti gli altri recitano la loro parte,
è tutto un teatro di maschere assurde,
a tratti grottesche,
si muovono come guidate da un intransigente regista.
Poi arriva il momento in cui decidi che quella maschera non ti piace più,
cerchi di tirarla via in ogni modo benché  ti sia appiccicata addosso come una seconda pelle.
E’ difficile, e ti rifugi nel ruolo ormai facile da gestire, lo conosci alla perfezione.
Ma poi no, non puoi più,
in qualche modo devi venir fuori,
in qualche modo verrai fuori.
Sperando solo di non fare troppi danni.

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Da bambina ripetevo spesso una domanda ai miei genitori.
Chiedevo: ma noi siamo poveri o ricchi?
E loro, a turno, da buoni appartenenti alla medio-bassa borghesia degli impieghi statali ottenuti grazie al compare militante nella  Dc, ripetevano: noi non siamo nè poveri nè ricchi, siamo medi. Noi possiamo comprare tutto quello che ci serve ma non le cose molto costose.

A me quella definizione pareva equa e direttamente proporzionale al nostro stile di vita.

Io solitamente ottenevo tutto quanto desiderassi, ma c’è da dire che i miei desideri erano, come dicevo poco fa, equi.
Mi faceva tremendamente felice una scatola di matite colorate e una confezione nuova nuova di bolle di sapone, i trucchi della mamma erano il mio sogno proibito, ma a Carnevale era possibile giocarci, e poi un bel giorno arrivò persino la casa di Barbie.

Poi avevo un libricino che, per la cronaca ce l’ ho ancora, è in realtà un catalogo di giocattoli, e io l’ho sfogliato praticamente ogni giorno della mia vita.
Era bellissimo, c’erano tutti i giocattoli che sognavo di avere, specie quelli che non si trovavano nei poco forniti negozi di giocattoli della mia natia provincia.
Quei giocattoli erano lontani, lontanissimi. Non c’era la vendita on line, non immaginavo neanche la possibilità che esistessero dei posti in cui fossero realmente in vendita o che ci fossero bambini che li ricevevano per Natale o per il compleanno.
Facevano parte del mondo dei giocattoli, del mondo dei desideri, dei sogni, delle cose belle…

Un giorno, era quasi Natale, passeggiavo per le vie della provincial cittadina vicino al mio provincial paesello insieme ai miei genitori, quei due che dicevano che non eravamo nè poveri nè ricchi e che, più o meno, mi procuravano sempre quello che desideravo, quelli che mi pareva potessero sempre rispondere alle mie aspettative, in quanto, sempre per ripetermi ancora una volta, queste erano direttamente proporzionali alle nostre reali possibilità economiche.
Quel giorno in un negozio, o meglio nel negozio (unosolo) vidi e desiderai Baby-viva. Era proprio lì, era lei, esisteva!

Io chiesi ai miei quella bambola come regalo di Natale, e per la prima volta vidi la perplessità nello sguardo di mio padre, quella bambola costava quasi duecentomilalire, all’epoca era una cifra enorme.
Per la prima volta loro mi dissero che no, non la potevano comprare, e non è che credessi ad un BabboNatale che la portasse aggratis, lo sapevo che i giocattoli venivano dal portafogli di mio padre.

Fu quello il momento in cui mi sentii povera per la prima volta.

Non ci rimasi neanche particolarmente male, in tutta onestà.
Non sono mai stata troppo venale, gli oggetti hanno sempre avuto su di me un fascino relativo, nulla ritenevo né ritengo veramente indispensabile.

Ma tutto questo per arrivare al punto, perché il concetto del post era un altro.
Ovvero questo: IO DA PICCOLA DESIDERAVO TANTISSIMO IL DOLCEFORNO e non so per quale oscuro motivo non mi sia stato mai regalato, né io l’abbia mai richiesto, né visto, né ce l’abbia mai avuto una mia amichetta per poterci giocare insieme.

Credo sia meglio mi fermi qui.
Il problema è che abbiamo ordinato la pizza, ma a me non me l’hanno fatta l’ortolana bianca con i gusti divisi per spicchi come avevo chiesto io, no, me ne hano portato una con gli ingredienti tutti mescolati e piena di peperoncino piccante, e allora l’ha dovuta mangiare lui, e io ho dovuto mangiare parte di quella sua col salame e il prosciutto, e non la volevo, no-no-no!

E poi la signora sotto casa a fatto le pizze fritte, c’è un odore celestiale nel palazzo.

Quasi quasi inauguro la tag "frustrazioni" o meglio "frustrazioni alimentari".

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